Terre Rare: il tesoro nascosto che alimenta tecnologia e tensioni globali

Le Terre Rare sono il cuore nascosto della tecnologia moderna: essenziali per auto elettriche, smartphone, turbine eoliche e sistemi di difesa, ma controllate quasi interamente dalla Cina. In questo articolo scopriamo cosa sono, perché sono diventate così strategiche, chi le controlla davvero e cosa può fare l’Occidente per ridurre la dipendenza. Un viaggio tra geopolitica, industria e futuro.

11/2/202523 min read

Sommario

  • Introduzione

  • Cosa sono le terre rare?

  • Caratteristiche e utilizzi: dalla tecnologia civile alla difesa

  • Dove si trovano e chi le produce

  • Il dominio cinese: come Pechino ha conquistato le terre rare

  • Terre rare come leva geopolitica

  • La risposta geopolitica di USA, UE, Australia e altri attori

  • Dipendenze e rischi industriali-strategici

  • Scenari futuri: verso l’autonomia o nuove soluzioni?

  • Il ruolo dell’Italia e come aumentare la resilienza tecnologica

Introduzione

Dagli smartphone alle auto elettriche, dalle turbine eoliche ai sistemi di difesa, le terre rare sono ovunque intorno a noi, pur rimanendo quasi invisibili al grande pubblico. Si tratta di elementi fondamentali per la tecnologia moderna e per le transizioni digitale e verde, ma la loro produzione è concentrata in pochissimi Paesi. Questo squilibrio ha trasformato le terre rare in un nuovo tallone d’Achille per l’industria e in un campo di battaglia geopolitico: chi ne controlla l’approvvigionamento detiene un potente vantaggio strategico. In questo articolo aggiornato a novembre 2025 esploriamo cosa sono le terre rare, le loro proprietà e utilizzi, dove si trovano, perché la Cina domina la filiera mondiale e quali implicazioni ciò comporta per USA ed Europa. Vedremo anche i rischi delle attuali dipendenze e gli scenari futuri possibili: dall’autonomia strategica europea al riciclo, fino alle tecnologie alternative, con esempi chiave e una riflessione finale su come l’Italia (e, soprattutto, l’Europa) possa rafforzare la propria resilienza tecnologica.

Cosa sono le Terre Rare?

Le terre rare (in inglese rare earths) sono un gruppo di 17 elementi chimici metallici: lo scandio, l’ittrio e i 15 lantanoidi (lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, prometio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio). Nonostante il nome, non sono affatto “rare” in termini di abbondanza nella crosta terrestre: molte di queste sostanze sono relativamente comuni in natura. La loro rarità deriva invece dalla difficoltà nel trovarle in concentrazioni sfruttabili: di solito sono sparse in bassi tenori all’interno di altri minerali, il che rende l’estrazione e la separazione complessa e costosa. In pratica, esistono pochi giacimenti “ricchi” di terre rare al mondo. Gli elementi delle terre rare si classificano spesso in leggeri (dal lantanio al samario) e pesanti (dall’europio al lutezio), con proprietà chimiche leggermente diverse.

Questi elementi presentano proprietà chimico-fisiche uniche: piccole aggiunte di terre rare possono modificare sensibilmente le caratteristiche di altri materiali, migliorandone prestazioni e funzionalità. Ad esempio, il neodimio e il samario permettono di creare magneti permanenti straordinariamente potenti (impiegati nei motori elettrici), l’ittrio e il gadolinio migliorano l’efficienza di sensori e interruttori elettronici, mentre il cerio trova impiego come catalizzatore (es. nelle marmitte catalitiche) e come agente lucidante nel vetro. In generale, le terre rare hanno proprietà magnetiche, luminescenti e catalitiche preziose che altre sostanze non possiedono con la stessa efficacia.

Esempio di ossidi di terre rare purificati in forma di polveri: dall’alto in senso orario, praseodimio, cerio, lantanio, neodimio, samario e gadolinio. I composti delle terre rare presentano colori e proprietà differenti e sono utilizzati in molte applicazioni high-tech.

Caratteristiche e utilizzi: dalla tecnologia civile alla difesa

Proprio grazie alle loro proprietà uniche, le terre rare sono diventate materiali chiave per una vasta gamma di applicazioni industriali e tecnologiche, sia civili sia militari. Ecco alcuni dei principali utilizzi:

  • Magneti e motori elettrici: magneti all’interno di veicoli elettrici, turbine eoliche e azionamenti industriali contengono neodimio, praseodimio, disprosio e altri elementi delle terre rare. Questi magneti, basati su leghe neodimio-ferro-boro (NdFeB) o samario-cobalto, sono tra i più potenti al mondo e consentono di ridurre peso e dimensioni dei motori mantenendo un’elevata potenza. Ad esempio, un’auto ibrida o elettrica di medie dimensioni contiene circa 10 kg di terre rare nei suoi motori e componenti. Una grande turbina eolica può incorporarne centinaia di chilogrammi nei magneti dei generatori. Senza terre rare, molte tecnologie di generazione verde e mobilità elettrica perderebbero efficienza.

  • Elettronica di consumo e telecomunicazioni: smartphone, tablet, computer, schermi TV, hard disk, auricolari – praticamente tutti i gadget elettronici contengono piccole quantità di terre rare. Ad esempio, l’europio e il terbio sono usati per i fosfori delle lampade fluorescenti e LED (colori nei display), il lantanio migliora le lenti delle fotocamere degli smartphone, il neodimio è presente nei minuscoli magneti degli altoparlanti e nei microfoni. Nell’infrastruttura di telecomunicazioni, ritardi di fornitura di componenti a base di terre rare (es. filtri, amplificatori) potrebbero rallentare la diffusione delle reti 5G.

  • Efficienza energetica e verde: diversi elementi vengono impiegati in tecnologie per l’energia pulita. Oltre ai magneti per eolico e auto elettriche già citati, il disprosio e il terbio aumentano la resistenza al calore dei magneti nelle turbine offshore. Terre rare come ittrio e cerio sono usate nei materiali ceramici avanzati (es. celle a combustibile ad ossidi solidi) e nei catalizzatori per ridurre le emissioni inquinanti. I loro usi sono quindi cruciali per la transizione ecologica.

  • Applicazioni militari e aerospaziali: i settori della difesa e dello spazio dipendono in modo critico dalle terre rare. Sistemi di guida di missili e bombe, radar, sonar, mirini per armi, comunicazioni crittografate, tutti utilizzano componenti (sensori, magneti, leghe speciali) contenenti terre rare. Un esempio impressionante: un singolo caccia avanzato F-35 contiene oltre 400 kg di materiali provenienti da terre rare; un cacciatorpediniere classe Arleigh Burke arriva a circa 2.400 kg e un sottomarino classe Virginia addirittura 4.200 kg. Anche i satelliti e i veicoli spaziali ne fanno uso (circa 1-10 kg per satellite medio). Senza questi elementi, molte tecnologie militari all’avanguardia non funzionerebbero o dovrebbero ricorrere a componenti meno efficienti.

Le terre rare sono abilitatori silenziosi di innumerevoli tecnologie moderne. Automobili a basso impatto, energie rinnovabili, smartphone, computer, infrastrutture digitali, tecnologie medicali (laser chirurgici, apparecchiature diagnostiche), fino ai sistemi di difesa più avanzati: tutti questi settori ad alto contenuto tecnologico dipendono in qualche misura dalle terre rare. Per questo l’Unione Europea ha inserito già nel 2013 le terre rare nell’elenco delle “materie prime critiche” strategiche. La loro disponibilità (o scarsità) può influenzare la competitività industriale e persino la sicurezza nazionale dei Paesi tecnologicamente avanzati. Non a caso, la vulnerabilità su queste forniture è oggi considerata non solo una questione economica ma anche geopolitica: senza un accesso sicuro alle terre rare, la sovranità tecnologica di una nazione o di un intero continente rischia di essere compromessa.

Dove si trovano e chi le produce

Geografia delle terre rare: I depositi di terre rare si trovano in varie parti del mondo, ma le riserve economicamente sfruttabili sono concentrate in poche nazioni. Si stima che le riserve mondiali ammontino a circa 120-150 milioni di tonnellate di ossidi di terre rare, con la Cina che da sola detiene circa il 37% delle riserve, seguita da Brasile e Vietnam (18% ciascuno), Russia (15%) e altri Paesi con quote minori. Anche l’India, gli Stati Uniti, l’Australia, il Sudafrica e il Canada possiedono giacimenti significativi, ma nessuno eguaglia la Cina in termini di dimensione e concentrazione delle riserve note.

Dal punto di vista estrattivo, negli ultimi decenni la Cina ha costruito una posizione di netta supremazia. Oggi oltre la metà delle terre rare estratte annualmente nel mondo proviene da miniere cinesi. In particolare, la gigantesca miniera di Bayan Obo in Mongolia Interna (Cina) – un giacimento di bastnäsite e altre rocce ricche di terre rare – è considerata la maggiore fonte singola: già nel 2019 la Cina (grazie a Bayan Obo, ai giacimenti nel Sichuan e alle argille ioniche del sud del Paese) era responsabile di oltre il 60% della produzione mondiale. Nel 2024 la quota cinese si è attestata attorno al 60-70% dell’output globale. Gli Stati Uniti, un tempo leader del settore durante la Guerra Fredda, oggi contribuiscono con quantità molto più modeste (la loro unica miniera attiva, Mountain Pass in California, ha prodotto circa 43.000 tonnellate nel 2022, pari a meno del 15% del totale mondiale). Anche l’Australia è emersa come fornitore importante (miniera di Mount Weld gestita da Lynas Rare Earths), così come il Myanmar, che esporta materiali grezzi verso la Cina. Altri produttori includono piccole quote da Thailandia, Madagascar, India e recentemente progetti in Africa (ad esempio in Burundi e Sudafrica). Ma nessun Paese singolo, oltre alla Cina, supera al momento il 10-12% della produzione globale. In sintesi, l’offerta di terre rare è tra le meno diversificate al mondo per un gruppo di materie prime così critiche.

Va sottolineata poi una distinzione fondamentale: estrarre le terre rare grezze è solo il primo passo; occorre poi raffinarle e separarle nei singoli elementi utilizzabili. Anche in questa fase la Cina la fa da padrona: oltre il 90% della capacità mondiale di separazione e raffinazione degli ossidi di terre rare è concentrato in Cina (il rimanente è quasi tutto in mano a Lynas, che raffina parte del materiale australiano in Malesia). In pratica, anche il materiale estratto in USA o altrove spesso viene spedito in Cina per essere processato. Questo significa che dipendenza e monopolio non riguardano solo le miniere, ma tutta la filiera industriale: dalla miniera al metallo puro fino al magnete o al componente finito.

Il dominio cinese: come Pechino ha conquistato le terre rare

Il ruolo preponderante della Cina nelle terre rare non è frutto del caso. Negli anni ‘80 e ‘90, mentre in Occidente l’estrazione diventava poco economica e problematica per ragioni ambientali, la Cina ha investito massicciamente nel settore, cogliendo l’opportunità. Due fattori chiave hanno permesso a Pechino di costruire un vero monopolio: costi bassi di produzione (grazie a manodopera a basso costo, normative ambientali meno stringenti e sussidi statali) e forti investimenti pubblici in infrastrutture e tecnologie di estrazione/raffinazione. Ciò ha consentito alle aziende cinesi di soddisfare la domanda globale a prezzi talmente competitivi da mandare fuori mercato molti competitor. In parallelo, la Cina ha strategicamente sviluppato industrie a valle vicino ai siti estrattivi: impianti di separazione, di raffinazione chimica e di produzione di magneti e leghe speciali costruiti accanto alle miniere, così da creare un ecosistema integrato e ridurre tempi e costi logistici.

Oggi la posizione dominante della Cina si estende lungo tutta la catena del valore delle terre rare. Qualche numero attuale: circa 60% dell’estrazione mondiale, oltre 90% della produzione raffinata di ossidi e ben 94% della produzione globale di magneti permanenti ad alte prestazioni. Questi ultimi fondamentali per auto elettriche, turbine, robotica, data center e sistemi militari. In altre parole, quasi tutti i magneti al neodimio del mondo escono da fabbriche cinesi. Questa concentrazione estrema pone il resto del mondo in una condizione di dipendenza per componenti cruciale in settori strategici (energia, automotive, difesa, elettronica avanzata).

La Cina non si è fermata ai confini nazionali: ha attuato una politica di acquisizioni e investimenti in miniere estere, per assicurarsi l’accesso alle materie prime ovunque si trovino. Ad esempio, aziende cinesi hanno partecipazioni in progetti di terre rare in Africa (come in Congo e Tanzania), in Asia (Myanmar, dove ottiene terre rare pesanti dalle argille ioniche) e in America Latina. Questo le garantisce forniture aggiuntive e le consente di controllare a monte molte fonti globali. Secondo un’analisi, tra investimenti diretti e accordi, la Cina ha speso oltre 4,3 miliardi di dollari in attività minerarie all’estero, superando di gran lunga paesi concorrenti come USA, Canada e Australia.

Terre rare come leva geopolitica

Avendo acquisito questo predominio, la Cina ha mostrato in più occasioni di considerare le terre rare anche come un strumento geopolitico da usare in caso di necessità, un po’ come la Russia ha fatto leva sul gas naturale o l’OPEC sul petrolio. L’episodio emblematico è la crisi Cina-Giappone del 2010: in seguito a una disputa sulle isole Senkaku/Diaoyu, Pechino interruppe le esportazioni di terre rare verso il Giappone (e indirettamente rallentò quelle verso USA ed Europa). Il risultato? Nel giro di pochi mesi i prezzi globali di alcuni ossidi critici salirono del 300%, aziende come Toyota furono costrette a fermare temporaneamente la produzione per mancanza di materiali, e in generale si creò il panico tra i produttori high-tech nipponici. Questo shock rivelò al mondo quanto fosse strategica – e fragile – la catena di approvvigionamento delle terre rare dominata da un singolo fornitore.

Da allora, la Cina è rimasta ben consapevole del potere contrattuale che le deriva dal suo monopolio. Negli ultimi anni, con l’inasprirsi dei contrasti commerciali e tecnologici tra Cina e Stati Uniti, Pechino ha nuovamente impugnato la “arma” delle terre rare. Nel 2020-2021 vi sono state minacce di tagliare le forniture agli USA in risposta alle restrizioni americane su Huawei e altri. E nel 2023 la Cina ha effettivamente imposto limiti all’export di altri minerali critici (come gallio e germanio, usati nei semiconduttori) per ritorsione verso le politiche occidentali di decoupling.

Il 2025 ha visto un’ulteriore escalation:

  • Aprile 2025: Pechino ha introdotto controlli alle esportazioni su sette terre rare pesanti (tra cui terbio, disprosio, ittrio, lutezio) e relativi composti, metalli e magneti. Gli esportatori cinesi devono ottenere una licenza governativa per vendere all’estero questi materiali. L’effetto immediato è stato un forte calo delle esportazioni ad aprile-maggio e difficoltà per molti costruttori di automobili in Europa e USA nell’approvvigionare magneti: alcune fabbriche hanno dovuto rallentare o fermarsi per mancanza di componenti. Anche dopo un parziale ripristino dei flussi, i prezzi delle terre rare fuori dalla Cina sono rimasti gonfiati – in Europa fino a 6 volte i prezzi interni cinesi – penalizzando la competitività dei produttori occidentali.

  • Ottobre 2025: La Cina ha esteso ulteriormente i controlli, annunciando che dal 1° dicembre 2025 sarà richiesta licenza anche per l’export di qualsiasi prodotto o componente contenente terre rare cinesi, anche se realizzato all’estero. Inoltre, è stata ampliata la lista degli elementi soggetti a restrizione includendo altre cinque terre rare (olmo, erbio, tulio, europio, itterbio) e – fatto ancora più rilevante – sono stati vietati l’export di macchinari e tecnologie di lavorazione delle terre rare (come impianti di separazione e raffinazione). In pratica, Pechino vuole impedire che altri Paesi possano sviluppare facilmente capacità proprie di raffinazione, bloccando la vendita degli strumenti necessari. Si tratta di mosse che gli analisti giudicano una decisa escalation: se applicate rigidamente, potrebbero colpire una vasta gamma di filiere strategiche globali (energia, automotive, difesa, semiconduttori, aerospazio) che utilizzano componenti contenenti terre rare cinesi. Inoltre ostacolano gli sforzi di diversificazione occidentali, mettendo i bastoni tra le ruote ai progetti emergenti fuori dalla Cina.

Queste azioni mostrano come la Cina intenda usare il suo vantaggio nelle terre rare come leva negoziale nelle dispute internazionali. La concentrazione attuale conferisce a Pechino un potere di ricatto potenziale: in caso di crisi o conflitto, potrebbe limitare le forniture mettendo in grave difficoltà industrie critiche occidentali. Non sorprende dunque che Stati Uniti, Europa, Giappone e altri Paesi stiano correndo ai ripari con strategie per diversificare e mettere in sicurezza le catene di fornitura di questi materiali.

La risposta geopolitica di USA, UE, Australia e altri attori

La crescente consapevolezza del “rischio terre rare” ha spinto le principali potenze industriali a muoversi su più fronti per riequilibrare la situazione. Vediamo il quadro attuale dei principali attori oltre alla Cina.

Stati Uniti: Per Washington le terre rare sono una questione di sicurezza nazionale. Già nel 2018 il Pentagono le ha definite essential to national defense e ha iniziato a finanziare progetti per ripristinare una filiera interna. Oggi negli USA è operativa (seppur con capacità limitata) la miniera di Mountain Pass, e il Dipartimento della Difesa ha stanziato fondi per impianti di separazione e magneti domestici (ad esempio supportando la società MP Materials che gestisce Mountain Pass, e accordi con l’australiana Lynas per un impianto in Texas). Nonostante questi sforzi, gli Stati Uniti restano ancora dipendenti dalla Cina per oltre l’80% del fabbisogno di terre rare lavorate. Consapevole che colmare il gap richiederà tempo, Washington ha anche creato stock strategici e stretto alleanze internazionali: ad esempio, con l’Australia (tradizionale alleato e secondo produttore occidentale di terre rare) e con il Giappone, che ha esperienza nel riciclo e nella riduzione dell’uso (dopo il trauma del 2010, Tokyo ha ridotto dal 90% al 60% la quota di import cinese). Di recente (novembre 2025) l’amministrazione USA ha firmato accordi con il Giappone per cooperare sull’approvvigionamento di terre rare e sviluppare filiere sicure. Tuttavia, gli esperti stimano che spezzare il predominio cinese richiederà almeno un decennio di investimenti coordinati e creazione di capacità produttiva alternativa. Nel frattempo, il rischio di strozzature resta alto e gli Stati Uniti monitorano attentamente ogni mossa cinese (come i controlli del 2025). Va notato che gli USA hanno anche inserito le terre rare tra i materiali coperti da accordi di “friend-shoring”, cercando di affidarsi di più a fornitori alleati (Australia, Canada, ecc.) invece che alla Cina.

Unione Europea: L’Europa è in una posizione forse ancora più vulnerabile, poiché importava dalla Cina circa 98% delle sue terre rare negli ultimi anni. La UE ha riconosciuto che senza accesso sicuro a queste e altre materie prime critiche, la doppia transizione verde e digitale rischia di bloccarsi. Nel 2023 Bruxelles ha lanciato la strategia denominata Critical Raw Materials Act (CRMA), un insieme di misure per assicurare forniture sicure e sostenibili di materiali critici, terre rare incluse. Gli obiettivi fissati dal regolamento europeo (approvato formalmente nel 2024) sono molto ambiziosi: entro il 2030 si punta a estrarre almeno il 10% del fabbisogno di materie critiche all’interno dell’Unione, raffinarne almeno il 40% in impianti europei, e riciclarne almeno il 15%. Inoltre, il CRMA stabilisce che per ogni materia prima critica nessun Paese terzo potrà fornire più del 65% dell’import europeo – un chiaro riferimento alla dipendenza eccessiva dalla Cina.

Raggiungere questi target sarà tutt’altro che semplice. La UE sta muovendo i primi passi: alcuni giacimenti europei di terre rare esistono e potrebbero venire sviluppati. Ad esempio, in Svezia nel 2023 è stata annunciata la scoperta di Per Geijer, il più grande deposito di terre rare d’Europa (nel nord del paese). Potrebbe teoricamente coprire l’intero fabbisogno europeo di alcuni ossidi, ma ci vorranno 10-15 anni per renderlo operativo. Altri progetti minerari sono in valutazione in Spagna (Matamulas), Norvegia (Fen) e Groenlandia, ma incontrano spesso resistenze ambientali e iter autorizzativi lunghi. Parallelamente, si lavora sul fronte industriale: la belga Solvay sta riconvertendo un suo impianto in Francia per produrre dal 2025 ossidi di neodimio-praseodimio destinati ai magneti (si stima possano coprire il 20-30% della domanda europea, ma non prima del 2030 inoltrato). In Estonia la canadese Neo Performance Materials già gestisce una raffineria (capacità ~3.000 ton/anno) e sta costruendo una fabbrica di magneti. Startup e progetti pilota sorgono in Germania, Francia, Polonia: ad esempio, la tedesca VAC e l’italiana Magneti Ljubljana (in Slovenia) intendono ampliare la produzione di magneti in Europa, mentre iniziative come REEtec in Norvegia e Mkango in Polonia mirano a creare capacità di separazione di terre rare entro pochi anni. C’è un forte impulso anche sul riciclo: progetti come il francese Orano “Magnolia” e impianti pilota in Germania (Heraeus) e Regno Unito puntano a recuperare terre rare da magneti e rifiuti elettronici. L’obiettivo è arrivare a reimpiegare quantità via via maggiori di magneti a fine vita, riducendo la necessità di materie prime vergini.

Nonostante questo fermento, nell’immediato la UE resta esposta. La mappa delle dipendenze europee mostra dati impressionanti: ad oggi la Cina fornisce all’Europa praticamente il 100% delle terre rare pesanti e l’85% di quelle leggere. Questo significa che una brusca interruzione dei flussi cinesi (per ragioni geopolitiche o altro) metterebbe in crisi interi settori industriali europei in poche settimane, dalla produzione di auto elettriche all’industria aerospaziale. Per questo l’Europa, oltre alle misure interne, sta attivando partnership internazionali: partecipa ad esempio alla Minerals Security Partnership guidata dagli USA (alleanza avviata nel 2022 con paesi affini come Canada, Australia, Giappone, Corea, ecc., Italia inclusa, per coordinare investimenti e condividere fonti di approvvigionamento). Ha inoltre siglato accordi bilaterali, ad esempio con Cile e Argentina (per litio e altre risorse, nel contesto della strategia Global Gateway). Sebbene queste intese riguardino soprattutto altri minerali (litio, cobalto, etc.), indicano la volontà europea di diversificare fuori dall’orbita cinese. In parallelo, la Commissione incoraggia i membri a sviluppare strategie nazionali: in Italia, ad esempio, dal 2021 esiste un tavolo tecnico interministeriale sulle materie prime critiche, sfociato nel 2022 in un gruppo di lavoro dedicato a formulare una strategia nazionale di approvvigionamento sicuro e sostenibile.

Australia e altri produttori emergenti: L’Australia è uno dei pochi Paesi democratici ad avere una filiera di terre rare significativa. La Lynas Corp, con la miniera di Mount Weld e l’impianto di separazione in Malesia, fornisce la maggior parte delle terre rare non cinesi sul mercato (rifornendo tra l’altro il Giappone). L’Australia sta anche collaborando con gli USA per aumentare la lavorazione on-shore e con l’Europa in progetti come quello tedesco di VAC. Altri attori emergenti includono il Canada (diversi giacimenti in sviluppo e piani per impianti di magneti), alcuni paesi africani come la Tanzania (progetto di grande miniera a Ngualla), il Burundi (già avviata una miniera da parte di Rainbow Rare Earths) e il Brasile (grandi riserve che potrebbero essere sfruttate in futuro). Anche il Vietnam possiede riserve notevoli (pari a quelle brasiliane) e sta valutando investimenti con partner stranieri. Molti di questi progetti tuttavia richiedono anni per divenire operativi e devono affrontare ostacoli finanziari, tecnologici e ambientali. Nel frattempo, la Cina continua a essere il dominus e a poter dettare condizioni sui prezzi. Secondo analisi indipendenti, anche ipotizzando un forte impegno occidentale, la Cina manterrà una leadership incontrastata per almeno i prossimi 5-10 anni nel settore.

Dipendenze e rischi industriali-strategici

L’attuale situazione di forte dipendenza dalla Cina per le terre rare comporta una serie di rischi di natura industriale e strategica, che governi e imprese hanno ormai ben presenti:

  • Rischio di forniture instabili: Come visto, la Cina può limitare le esportazioni per decisioni politiche. Anche senza misure “belliche”, la concentrazione geografica rende vulnerabili: un problema interno (scioperi, disastri ambientali, instabilità in paesi fornitori complementari come il Myanmar) potrebbe interrompere il flusso di materiali. Ad esempio, dopo i controlli cinesi del 2025, alcune case automobilistiche occidentali hanno dovuto fermare temporaneamente impianti per mancanza di magneti. Le scorte lungo la filiera sono tipicamente basse (per contenere i costi), dunque interruzioni anche brevi possono fermare intere linee produttive di auto, turbine o dispositivi elettronici.

  • Volatilità dei prezzi: Un’offerta rigida e concentrata comporta forti oscillazioni di prezzo al variare della domanda o a seguito di tensioni. Nel 2010 i prezzi di alcuni ossidi decuplicarono in pochi mesi; nel 2025 in Europa i costi dei magneti sono schizzati a multipli di quelli in Cina dopo l’imposizione di licenze. Questa volatilità rende difficile pianificare investimenti industriali e può ridurre la convenienza economica di tecnologie verdi (ad esempio, turbine eoliche più care per il costo dei magneti). Per i paesi importatori significa anche possibili pressioni inflazionistiche e perdita di competitività.

  • Dipendenza tecnologica e vulnerabilità strategica: Se un Paese non dispone né di fonti alternative né di scorte, può trovarsi ostaggio di decisioni altrui. Nel caso estremo di un confronto geopolitico serio (ad esempio un’ipotetica crisi su Taiwan), la Cina potrebbe bloccare le esportazioni di terre rare verso gli USA o l’Europa, mettendo in difficoltà la produzione di armamenti, aerei, veicoli elettrici, ecc. Senza un accesso indipendente, le capacità industriali e militari occidentali sarebbero limitate. Questo mina la sovranità tecnologica: avere i progetti e i capitali non basta, se mancano i materiali chiave. Non a caso la NATO e l’UE considerano le terre rare un elemento di sicurezza economica collettiva.

  • Rischi ambientali locali: Un aspetto spesso poco evidenziato è che l’esternalizzazione della produzione in Cina e altri paesi ha anche motivazioni ambientali: l’estrazione e raffinazione delle terre rare è un processo sporco, che genera scorie tossiche e radioattive (ad esempio torio). La Cina ha pagato un prezzo ecologico altissimo nelle zone minerarie (laghi di fanghi tossici a Baotou, inquinamento idrico, problemi sanitari). Se ora l’Occidente cerca di riaprire miniere e impianti, dovrà affrontare anche l’opposizione delle comunità locali e il rispetto di standard ambientali elevati – tutto ciò aumenta tempi e costi. Il rischio strategico quindi non è solo economico, ma anche di sostenibilità: come conciliare l’aumento di produzione con la tutela ambientale? Questa è una sfida cruciale per progetti in Europa e USA, dove l’opinione pubblica ha sensibilità ecologica (si pensi alle proteste in Svezia contro il progetto Norra Karr).

  • Rischio di ritardo nella transizione verde: La scarsità o il costo eccessivo di terre rare potrebbe rallentare la diffusione di tecnologie pulite. Se magneti eolici o motori EV diventano troppo costosi o difficili da ottenere, c’è il pericolo di non raggiungere gli obiettivi di energia rinnovabile e decarbonizzazione nei tempi previsti. Questo crea un paradosso: la transizione ecologica occidentale dipende da materiali forniti da un paese (la Cina) il cui coinvolgimento nei processi multilaterali sul clima è complesso e che potrebbe usarli come leva negoziale.

Consapevoli di questi rischi, molti settori industriali si stanno già attrezzando. In Europa, ad esempio, un’indagine ha rilevato che circa il 70% delle aziende del settore elettrotecnico-elettronico ha diversificato i fornitori di materiali critici, il 49% ha aumentato gli stock di sicurezza, e il 38% sta riprogettando prodotti per ridurre o sostituire l’uso di materiali scarsi. Sono misure tampone importanti. Tuttavia, resta essenziale un approccio sistemico guidato anche dai governi.

Scenari futuri: verso l’autonomia o nuove soluzioni?

Guardando al futuro, si delineano alcuni scenari e strategie che potrebbero ridisegnare il panorama delle terre rare nei prossimi 10-20 anni:

1. Autonomia strategica (soprattutto per l’Europa)

L’Europa, come detto, ha lanciato un piano per sviluppare una filiera interna dall’estrazione al riciclo. Se anche solo in parte gli obiettivi 2030 del Critical Raw Materials Act saranno raggiunti, l’UE potrà ridurre la dipendenza critica dalla Cina. In particolare, la messa in produzione del deposito svedese Per Geijer (magari attorno al 2035) e di altri progetti minori, insieme all’espansione di impianti come Solvay in Francia e Neo in Estonia, potrebbe fornire all’Europa alcune migliaia di tonnellate annue di terre rare ossidate “made in EU”. Ciò sarebbe comunque insufficiente per l’intero fabbisogno, ma combinato con accordi con partner affidabili (Australia, Canada, ecc.) e con una politica di stockpile strategico, renderebbe l’Europa meno esposta a shock improvvisi. Anche gli Stati Uniti puntano a un grado di autonomia maggiore, pur sapendo di non poter azzerare l’import. Questo scenario vede Occidente e alleati creare una sorta di “catena di fornitura parallela” che bypassa la Cina. Richiede però tempo, investimenti ingenti e volontà politica costante (anche di fronte a costi maggiori, che inevitabilmente si rifletteranno sui prezzi dei prodotti).

2. Riciclo e economia circolare

Molti esperti sostengono che la via maestra per alleviare la tensione sulle terre rare è massimizzare il recupero dai prodotti a fine vita. Attualmente il riciclo di terre rare è molto basso (meno dell’1% a livello globale), principalmente per difficoltà tecniche nel separare i materiali e costi elevati. Ma la tecnologia sta migliorando: processi idrometallurgici e nuovi metodi (come il riciclo diretto di magneti) promettono di recuperare percentuali crescenti. In Europa, l’associazione di settore ANIE evidenzia che l’economia circolare deve diventare un pilastro strategico: servono incentivi e normative che rendano più conveniente recuperare le terre rare dai rifiuti elettronici e dagli scarti industriali rispetto all’acquisto di materia prima vergine. Secondo uno studio, entro il 2040 il riciclo potrebbe coprire tra il 20% e il 32% del fabbisogno annuale italiano di terre rare, superando così l’obiettivo UE del 15% già prima del 2030. Questo se si investe adeguatamente in impianti di riciclo e si semplificano le procedure autorizzative per queste attività. L’Italia, ad esempio, sta muovendo passi avanti: progetti come il primo distretto di economia circolare del Valdarno (promosso da Iren) e un impianto in Toscana per il riciclo di pannelli solari mirano a recuperare migliaia di tonnellate di materiali utili ogni anno (non solo terre rare, ma anche altri metalli). Ovviamente il riciclo da solo non basterà a colmare la domanda crescente, ma può diventare un contributo significativo e soprattutto ridurre la dipendenza dalle importazioni, oltre a portare benefici ambientali.

3. Nuovi giacimenti e miniere “non cinesi”

Al di là dell’Europa, altri Paesi potrebbero aumentare l’offerta. Si guarda con attenzione ai progetti in Africa (ad esempio il Burundi ha già iniziato, Malawi e Namibia hanno risorse), in America (il Brasile potrebbe sfruttare le sabbie monazitiche, gli USA potrebbero aprire nuovi siti oltre Mountain Pass, come il progetto Round Top in Texas) e in Asia fuori dalla Cina (India e Vietnam hanno riserve significative non ancora sfruttate). Se anche solo una parte di questi giacimenti venisse sviluppata, entro 10-15 anni potremmo vedere una produzione mondiale più bilanciata. Ad esempio, l’India sta valutando l’estrazione di terre rare dai suoi depositi costieri di monazite come parte di una strategia nazionale. Il rischio qui è duplice: serve capitalizzare e trasferire tecnologia a paesi che magari hanno meno capacità industriale; inoltre la Cina spesso cerca di investire anche in queste nuove miniere, mantenendo così indirettamente il controllo. Un discorso a parte meritano le terre rare sottomarine: abbondanti noduli ricchi di REE giacciono sui fondali oceanici (Pacifico centrale). Il Giappone ha scoperto nelle sue acque una zona di sedimenti con quantità enormi di terre rare. Tuttavia, le incognite tecnologiche, economiche e ambientali legate al deep sea mining rendono improbabile uno sfruttamento su larga scala nel prossimo decennio.

4. Tecnologie sostitutive (design “rare-earth free”)

L’altro fronte su cui si lavora è ridurre la necessità stessa di terre rare attraverso innovazione tecnologica. Un esempio eclatante è Tesla, che nel 2023 ha annunciato di voler eliminare completamente le terre rare dai magneti dei futuri motori elettrici. L’azienda di Elon Musk intende passare a motori privi di magneti permanenti (tornando a motori a induzione elettrica) o utilizzare magneti alternativi. Una possibilità concreta è l’uso di magneti in ferrite (a base di ferro e stronzio, senza terre rare), molto meno costosi e senza rischio geopolitico. La ferrite però è circa 10 volte meno performante del neodimio: per ottenere la stessa potenza serve un magnete molto più grande e pesante. Tesla crede di poter compensare con un design ingegnoso, ma è una sfida aperta. Altre case automobilistiche stanno sperimentando motori a riluttanza magnetica o a induzione che non richiedono magneti con terre rare, accettando magari un piccolo sacrificio di efficienza per avere una supply chain più sicura. Anche nelle turbine eoliche si può optare per modelli con generatori a trasmissione (gearbox) invece dei direct-drive con magneti: comportano più manutenzione e meno efficienza, ma riducono l’uso di Nd e Dy. In campo elettronico, si studiano materiali fosfori alternativi per LED e laser che non richiedano europio o terbio. Nel medio termine, innovazioni nei materiali magnetici potrebbero offrire soluzioni: ad esempio leghe di ferro-azoto, oppure magneti a base di nanocompositi o addirittura nanotubi di carbonio (ci sono ricerche su motori a nanotubi senza terre rare). Per ora nessuna di queste tecnologie è matura per rimpiazzare su larga scala i magneti alle terre rare, ma l’interesse è enorme. Se venisse scoperto o perfezionato un materiale magnetico altrettanto potente e più abbondante, lo scenario delle terre rare verrebbe rivoluzionato. Nel frattempo, l’ottimizzazione: usare meno materiale per lo stesso risultato (ad esempio magneti miniaturizzati, design che riducono gli sprechi, recupero degli scarti di produzione) è un’altra forma di sostituzione indiretta.

È probabile che il futuro vedrà una combinazione di tutti questi approcci: un po’ più di produzione diversificata, molto più riciclo, uso più efficiente e qualche sostituzione tecnologica. La domanda globale di terre rare è destinata comunque a crescere nei prossimi anni, trainata soprattutto dalla transizione energetica (veicoli elettrici e rinnovabili). Secondo alcune stime, la domanda di neodimio-praseodimio per magneti potrebbe raddoppiare entro il 2035. L’esito sarà determinato dal gioco strategico in corso: da un lato la Cina che vuole mantenere lo status quo (e anzi spostare sempre più il valore aggiunto verso prodotti finiti high-tech fatti internamente), dall’altro il resto del mondo che cerca vie di uscita dalla dipendenza. Nel breve termine, Pechino ha il coltello dalla parte del manico; nel lungo termine, azioni troppo aggressive (come un embargo totale) potrebbero spingere gli altri a investire ancora più rapidamente in capacità alternative, a scapito del monopolio cinese. È un equilibrio delicato.

Il ruolo dell’Italia e come aumentare la resilienza tecnologica

L’Italia, pur non avendo miniere attive di terre rare, è fortemente interessata dalla partita. Il nostro Paese ha una base industriale manifatturiera significativa – pensiamo ai settori dell’automotive, dell’energia, dell’aerospazio, dell’elettronica di consumo, delle telecomunicazioni e della difesa – tutti comparti che utilizzano componenti ad alta tecnologia e quindi indirettamente quantità rilevanti di terre rare. Si stima che oltre 60 miliardi di euro di produzione industriale italiana annua dipendano da materie prime critiche importate, spesso da aree geopoliticamente instabili. In altre parole, la vulnerabilità della filiera di approvvigionamento di terre rare (così come di litio, rame e altri materiali strategici) può minacciare la competitività e la sicurezza industriale nazionale.

Cosa può fare dunque un Paese come l’Italia? La risposta deve articolarsi su più livelli, in coordinamento con l’Unione Europea ma anche con iniziative nazionali mirate. Possibili azioni chiave:

  • Mappare e valorizzare le risorse interne: Anche se l’Italia non è certo la “Arabia Saudita” delle terre rare, sul territorio sono presenti alcuni giacimenti minori. Ad esempio, tracce di terre rare si trovano nelle Alpi meridionali (Lombardia e Trentino-Alto Adige) e in Sardegna (depositi associati a fluorite e barite nel sud dell’isola). Per decenni l’Italia ha rinunciato alla ricerca mineraria, ma nel 2025 il governo ha lanciato il Programma Nazionale di Esplorazione Mineraria affidato a ISPRA, con 14 progetti di indagine su tutto il territorio nazionale e un investimento iniziale di 3,5 milioni di euro. Lo scopo è aggiornare le conoscenze geologiche dopo 30 anni di stasi e verificare se esistono risorse sfruttabili in modo sostenibile, terre rare incluse. Si tratta di un primo passo concreto verso una possibile (ri)valorizzazione di risorse domestiche. Qualora venissero individuati depositi promettenti, andrebbe valutata con attenzione la fattibilità estrattiva, bilanciando costi, benefici e impatti ambientali. Anche lo sfruttamento di rifiuti minerari pregressi (ad esempio discariche minerarie contenenti terre rare come sottoprodotto) potrebbe offrire opportunità, e rientra tra le attività mappate dal progetto URBES del PNRR.

  • Sostenere il riciclo e l’innovazione nei materiali: L’Italia può giocare un ruolo da protagonista nell’economia circolare applicata alle terre rare. Abbiamo competenze industriali e di ricerca nei settori chimico e metallurgico che possono essere mobilitate. Ad esempio, lavorare sul riciclo dei magneti (smontando vecchi motori elettrici, turbine o hard disk) e sul recupero di terre rare da RAEE (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche) potrebbe ridurre la dipendenza esterna e creare filiere virtuose. La Commissione UE ha puntato sull’Italia per il riciclo: sono in cantiere progetti pilota per disassemblare magneti e usare processi idrometallurgici per estrarre neodimio e altri elementi da rifiuti elettronici. Queste iniziative devono essere sostenute con incentivi stabili, snellendo le procedure autorizzative e favorendo la creazione di un mercato delle materie prime seconde. Sul fronte dell’innovazione, l’Italia può investire in ricerca su materiali sostitutivi: ad esempio, sviluppare magneti avanzati a base di ferriti o leghe alternative, oppure componenti elettronici che richiedano meno terre rare. Il nostro sistema di ricerca pubblico-privato (università, CNR, ENEA, poli tecnologici) può essere orientato su questi obiettivi, anche partecipando a progetti europei.

  • Reshoring e presidio delle filiere critiche: ANIE Confindustria – che rappresenta le imprese elettrotecniche ed elettroniche – ha invocato la necessità di riportare in Europa (e magari in Italia) alcune produzioni strategiche legate alle terre rare. Ciò potrebbe includere l’assemblaggio di magneti, la produzione di componenti per motori elettrici, sensori e altri dispositivi ad alto valore aggiunto. Per farlo servono incentivi per il reshoring di queste attività, creando condizioni favorevoli (credito d’imposta, energia a prezzi competitivi, semplificazione burocratica) per chi investe in impianti strategici sul territorio nazionale. Allo stesso tempo, occorre snellire le autorizzazioni sia per eventuali attività estrattive sia per impianti di riciclo: i tempi lunghi uccidono i progetti industriali. Il governo dovrebbe predisporre sportelli unici e procedure accelerate (sempre nel rispetto dell’ambiente) per le iniziative sulle materie critiche.

  • Accordi di fornitura e diplomazia delle materie prime: l’Italia, insieme all’UE, dovrebbe attivare una diplomazia economica volta a stringere partnership bilaterali con Paesi ricchi di risorse che siano politicamente affidabili o interessati a cooperare. Ad esempio, accordi con il Kazakhstan (che possiede terre rare e sta cercando investitori), con paesi africani emergenti, o con l’Australia stessa (per assicurarsi una quota di fornitura a lungo termine da Lynas o future miniere). Questi accordi potrebbero prevedere joint venture, scambi tecnologici, formazione e aiuti allo sviluppo in cambio di accesso preferenziale a determinati quantitativi. L’Italia ha una tradizione consolidata di relazioni industriali in alcuni paesi (pensiamo al Nord Africa) e potrebbe usarla per diversificare i suoi fornitori, riducendo l’esposizione al rischio geopolitico.

In definitiva, come sottolineato dal Presidente di ANIE, “non possiamo più permetterci di dipendere da filiere fragili concentrate in poche aree del mondo”. La resilienza delle supply chain è diventata una priorità strategica per la competitività e la sicurezza industriale. Si tratta di una sfida complessa che richiede uno sforzo coordinato di sistema, unendo industria, istituzioni e ricerca. L’Italia deve fare la sua parte all’interno del quadro europeo, cogliendo l’opportunità per rafforzare la propria base tecnologica e industriale. La posta in gioco è alta: senza sicurezza negli approvvigionamenti di terre rare (e di altre materie prime critiche), la doppia transizione ecologica e digitale rischia di rimanere incompiuta e il Paese esposto ai venti delle crisi globali. Al contrario, investire oggi in soluzioni (esplorazione, riciclo, innovazione, accordi internazionali) può assicurare all’Italia e all’Europa un futuro in cui tecnologie pulite e innovazione prosperino su basi più solide e indipendenti. In un mondo dove le terre rare sono divenute il “nuovo petrolio” della tecnologia, costruire resilienza e autonomia è la chiave per trasformare una vulnerabilità in un punto di forza strategico per il nostro futuro.